ridere

Su una panchina al parco c’è un vecchio che ride.
Non riesce a fermarsi, si guarda attorno e ride.
Quando gli passa fa un gran respiro, si dà uno schiaffo sulla guancia.
E ricomincia.

(un racconto brevissimo che potrebbe – o potrebbe non – essere vero)

incipit al cubo

Le storie, se ci fate caso, iniziano tutte più o meno nella stessa maniera.
Certo, ognuna ha le sue caratteristiche, le sue peculiarità – il suo tempo il suo luogo, il suo come e il suo cosa – eppure tutte quante, vere o inventate che siano, quando cominciano ti illudono che andranno a parare da qualche parte, che alla fine ci sarà un motivo per cui sono state raccontate. Altrimenti, perché raccontarle?
Nel caso delle storie vere, di solito questo ha a che fare con il motivo per cui, tra miliardi di storie realmente accadute, proprio quella sia stata considerata degna di evolvere, di meritarsi la promozione a qualcosa che valga la pena di tramandare a qualcuno.
Nel caso delle storie inventate, invece, il senso è se possibile ritenuto ancora più necessario: perché perdere tempo ed energie ad architettare una storia che non va da nessuna parte? Nessuno sano di mente vorrebbe dedicare il suo tempo a un vicolo cieco, giusto?
E invece no, sbagliato.
Perché anche un vicolo cieco, angusto, infestato dalla puzza di piscio e immondizia, sprofondato tra palazzi che incombono su di lui e lo soffocano, un vicolo privo di nome e di numeri civici, anche quel vicolo cieco per qualcuno può essere un luogo a cui ritornare, qualcosa di simile a casa.
E lo stesso può capitare con una storia priva delle caratteristiche che comunemente si considerano indispensabili per suscitare interesse.
Sono come barzellette che fanno ridere solo chi le racconta, come amplessi in cui uno arriva all’orgasmo prima ancora che l’altro cominci a scaldarsi. Sono insoddisfacenti, forse, eppure esistono. Sono fallimenti in potenza, sono potenzialità inespresse, l’alunno che sarebbe intelligente ma non si impegna, il bonsai cresciuto rigoglioso per venticinque anni che nel giro di venticinque giorni viene stroncato da un parassita invisibile.
Se questa storia sia proprio una di quelle, non lo saprei dire: sono troppo coinvolto, mi manca la prospettiva per giudicare.
Quindi, giudicate voi.

tuo padre che affoga

Cosa fanno le persone quando non le stiamo guardando?
In pubblico fingiamo tutti così tanto che non c’è modo di sapere quel che succede quando torniamo a casa, la serratura scatta, e restiamo soli con le nostre cose, i nostri difetti, i nostri odori.
Vale per tutti quanti, in qualsiasi momento.
Vale anche per me, quando venduti gli ultimi biglietti per uno spettacolo apro la porta dello sgabuzzino e poi me la chiudo alle spalle.
Cosa ci sarà là dentro? pensano gli ultimi spettatori mentre entrano in sala, ma probabile sia un pensiero fugace, perché poi il buio della sala se li inghiotte, e comincia il film.

(incipit di Tuo padre che affoga, un mio racconto appena pubblicato su minima&moralia, qui)

oh Io!

«Lo vedi che sono degli stronzi?».
«Signore, non dite così».
«Lo dico eccome, non passa giorno che non lo dimostrino. Guarda quelli, guarda guarda guarda! Non ci si crede. Ma è stata colpa anche Mia, oh sì, ho fatto almeno un errore imperdonabile».
«Ma Voi siete infallibile…».
«Ma falla finita, che non ci credi neanche tu… Che Io sia infallibile lo dicono loro, che infatti sono fallibili e lo dimostrano dicendolo. Non sono infallibile, non sono onnipotente né onnisciente, sono solo eterno, e fa una bella differenza. Accidenti a Me e al peccato originale».
«La mela, intendete?».
«Ma no, ma quale mela, quella era solo un’allegoria. Quando gli ho parlato di peccato originale intendevo il Mio, sono loro che hanno frainteso. Io intendevo la scelta di dargli il libro arbitrio, quello è stato il peccato originale originale. Tornassi indietro non lo rifarei. Pensa come sarebbe bello se facessero solo quello che è previsto per loro, immaginati l’ordine, la geometria della predestinazione».

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buona dissoluzione

Un cazzone ridicolo». Uno che dovrebbe ringraziare chi gli ha fatto il favore di registrare la sua «trascurabile esistenza», facendolo uscire dal suo misero «cono d’ombra».

Questo, modestamente, sarei io. Per capire da dove venga questa lusinghiera descrizione mi vedo però costretto a chiedervi un passo indietro. Andiamo.

Nel 2018 pubblico una raccolta di racconti con una piccola, agguerrita, coraggiosissima casa editrice. Nonostante le circostanze (il semi-esordiente, con una raccolta di racconti, in Italia: sembra una versione editoriale di Cluedo, e la vittima, scontata, è il successo) il libro va piuttosto bene.

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un lago

C’era un lago – piccolo ma pieno di vita –, e di fianco al lago c’era un piccola casa di legno, e nella piccola casa di legno c’era un uomo.
L’uomo sopravviveva grazie al lago, che ogni giorno gli forniva quello di cui aveva bisogno per sopravvivere: acqua e cibo.
Ma il lago – almeno così sembrava all’uomo – era costantemente minacciato: predatori che nuotavano sul fondo, siccità improvvise, strane alghe marroni che ne infestavano i bordi.
E così le giornate dell’uomo scorrevano in bilico tra i due estremi, quello salvifico e quello traboccante d’ansia, che il lago portava con sé.

(e questo è tutto quello che ho da dire sull’essere genitori, in generale ma più in particolare nell’anno 2021)

destino

«Te ci credi al destino?».
«No».
«He he».
«Cosa?».
«Cosa “cosa”?».
«Ha ridacchiato, hai fatto “He he”, perché?».
«Be’, perché era ovvio che avresti risposto così».
«No, senti, non incominciamo, ho mal di testa, davvero».
«He he».
«Ho capito che adesso qualsiasi cosa io dica o faccia tu sosterrai che era scritto nel destino anche se non credo nel destino, ma alla lunga rompi le balle».
«He he».
«Vabbe’, senti, io vado…
«H…
«… e tu non osare, non ti permettere, stai zitto! Zitto, ok? Vado».

(«He he».)

la banca dell’ansia

Ero lì che stavo decidendo cosa fare per cena quando mi è squillato il telefono.
Numero sconosciuto, Maledetti tafanatori, ho pensato.
E poi, ancora in piedi e in mutande davanti al frigo aperto, ho risposto.
«Parlo con B.?» ha detto una voce.
Tafanatori che si prendono confidenze, i peggiori in assoluto, ho pensato.
E «Sì, chi è?», ho detto.
«Buonasera, la chiamo dalla Banca dell’Ansia» ha detto la voce. «Mi spiace disturbarla ma mi risulta che ci siano problemi col suo conto» ha detto.
«Quale conto?».
«Il suo Conto dell’Ansia, che domande».
«Non ho nessun Conto dell’Ansia, mai aperto niente di simile».
«È naturale, non è così che funziona. Se aspettassimo che uno apra il conto di sua spontanea volontà saremmo già falliti, he he he».
«Continuo a non capire».
«Niente paura, sono qui apposta. Allora, quando individuiamo clienti che ci possano assicurare un buon ritorno, noi apriamo automaticamente un conto a loro nome. Ed è quello che abbiamo fatto anche con lei. Ora, come le dicevo, purtroppo c’è un problema con il suo conto e l’ho chiamata perché spero di poterlo risolvere quanto prima».
«Ma è legale questa cosa?».

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che ci faccio qui

Mi fanno male i piedi.
Qua dentro c’è un caldo assassino.
E c’è puzza di sudore giovane, mescolata a un odore dolciastro che non capisco bene cos’è.
Il cantante esce sul palco, ha addosso una giacca e dei pantaloni dorati, ricoperti di lustrini. Nella luce dei fari sembra vestito di scintille da saldatore.
Ha un paio di occhiali da sole con la montatura bianca, enormi, che gli coprono mezza faccia.
Quando alza un braccio e saluta, tutti urlano il suo nome.
Urla anche mia moglie, in piedi davanti a me, solo che invece del nome d’arte lei urla quello di battesimo.
Se mi avessero detto che un giorno sarei stato sotto un palco ad ascoltare musica come questa, e che sul palco ci sarebbe stato mio figlio, vestito come un cioccolatino, avrei risposto Voi siete pazzi.
E invece.
Passo le prime tre canzoni a chiedermi che ci faccio qui.

(incipit di un racconto inedito dal titolo Che ci faccio qui; continua sul nuovo numero di retabloid, qui)