Nel momento in cui questo vivido, concreto incubo in cui siamo tutti immersi ha cominciato a prendere forma, diciamo sei settimane fa, nella mia bolla – che per ragioni varie è una bolla per lo più letteraria – ha iniziato a farsi strada una battuta: «Dio ci scampi dai romanzi sulla pandemia che usciranno tra quattro mesi» (o cinque, o dodici: la battuta conteneva in sé il germe dell’incertezza su quando – se? – le cose torneranno come prima).
La battuta, devo ammetterlo, non mi è sembrata divertente; se mai c’è stato un periodo in cui la mia voglia di ridere è andata scemando è questo – e io adoro ridere, anche per le cose più stupide. Ultimamente fatico a sostenere quello che ho sempre pensato, ovvero che non ci sia quasi nessun argomento su cui non sia lecito scherzare. Compressi in quel quasi ci ho sempre messo il contesto, il tempismo, l’opportunità. Quel quasi era l’eccezione, il motivo per cui, pensavo, si può anche scherzare sulla malattia, ma non è consigliabile farlo durante il funerale di qualcuno che di quella malattia è morto. E il presente, per me, ha iniziato ad assumere proprio questi contorni: un lugubre funerale, diffuso e quotidiano. Il presente ha fatto emergere aspetti del mio carattere di cui mi vergogno – non ultima una iniziale, spasmodica ricerca di informazioni rassicuranti, dal raggio sempre più ristretto: la speranza che il virus non arrivasse nel paese in cui vivo, e poi nella regione, e poi nella città; qui mi sono fermato, ma solo perché non erano disponibili informazioni sulla via, il condominio, la scala.
Una volta appurato che il virus era qui, che forse era arrivato fin sul pianerottolo di casa, è arrivato il rigetto. Rigetto per il flusso di informazioni, per il chiacchiericcio social, perfino per le chat whatsapp, da cui sono uscito quando le cose hanno iniziato a precipitare – e no, non parlo delle famigerate chat dei genitori dell’asilo, ma di quelle in cui ci sono gli amici più stretti che ho, persone che conosco da trent’anni anni e a cui affiderei tutto quel che possiedo.
Curioso, no? Costretto alla limitazione dei rapporti sociali, invece che cercare dei surrogati ti spingi oltre e arrivi ad azzerare anche i pochi contatti ancora possibili. Cupio segregavi, o qualcosa del genere.
Torniamo alla battuta sui romanzi che ci aspettano. Oltre che dal mio ormai stitico senso dell’umorismo, il mio fastidio derivava anche dal fatto che, mentre la bolla immaginava scribacchini che facevano di quarantena virtù e scrivevano corposi, noiosissimi romanzi della pandemia, io invece mi ritrovavo ad aver perso la voce. Nelle prime quattro settimane di isolamento (ammesso che così si possa chiamare la clausura in compagnia di due figli, di anni quattro e uno) non avevo scritto nemmeno una riga. E sì che in quell’ottimistico piano di lavoro steso qualche mese fa – sembrava passata un’era geologica – in marzo avrei dovuto scrivere i due capitoli centrali di un romanzo attorno a cui giravo da ormai troppo tempo.
Invece, neanche una riga.
Il fastidio per la battuta, forse, celava anche l’invidia per chi stava riempiendo pagine su pagine, proprio mentre io ero ammutolito.
Ma stava succedendo solo a me?
A quanto pare, no.
Molti di questi tempi dichiarano di fare fatica a concentrarsi leggendo un libro (o guardando serie e film), e c’è un gran numero di scrittori che lamentano più o meno i miei stessi sintomi, la mia stessa afonia (per esempio, qui e qui).
Non tutti si danno la stessa spiegazione, ma gli effetti sono circa gli stessi.
Sulla carta, un ottimo alibi per mettersi l’animo in pace, fare altro, e aspettare che le cose migliorino prima di riaprire i file, riannodare i fili della storia, provare a ripartire.
Se gente con molto più talento di te non riesce a scrivere, be’, rilassati e lascia perdere. Una nuova voce da aggiungere alla lista di scuse che di volta in volta si trovano per non mettersi al lavoro.
Nel frattempo la battuta, in formulazioni solo apparentemente diverse, non ha smesso di capitarmi davanti agli occhi. Alla fine mi sono permesso uno sfogo, ho scritto sui social che da tutto questo dolore, almeno, mi auguravo venisse fuori un cazzo di romanzo capolavoro che fissasse su carta quel che stiamo vivendo. Un parziale indennizzo, diciamo così; ininfluente per chi ritiene la letteratura inutile, e misero se pensiamo al numero di morti delle ultime settimane, ma pur sempre un’esile consolazione* per chi ancora crede che raccontare storie non sia solo un capriccio.
Mi ha risposto uno scrittore, uno che ammiro molto.
Ha detto che di quel che verrà dopo, di quel che verrà pubblicato, non gliene frega nulla; quello che gli interessa al momento è sopravvivere.
Difficile dargli torto.
Eppure.
Alla fine, con diffidenza, ho ripreso in mano il romanzo a cui stavo lavorando prima. La lista dei motivi per non mettersi a scrivere è comoda, ma contiene anche un bel senso di colpa (“Il mio tempo si divide in momenti in cui scrivo, e momenti in cui ho il senso di colpa perché non sto scrivendo”; cito a memoria, lo ha detto David Foster Wallace). Visto che scrivere mi risultava difficile, ho iniziato con un po’ di revisione. La revisione ha comportato la riscrittura di alcuni passaggi, e mi ha fatto tornare la fame di pagine nuove. Il romanzo in questione è ambientato nella seconda metà del Novecento, parla di cose atroci – anche se ho il dubbio che toccherà ritarare l’aggettivo, d’ora in poi – ed è una fortuna che scrivendolo non ci sia bisogno di fare i conti con il 2020. La distanza dal presente ha anche il non trascurabile vantaggio di mettermi al riparo dai destinatari della battuta, a ben vedere. Ma la scrittura è una materia porosa, e non posso escludere che lascerà filtrare qualcosa del presente, che lo proietterà indietro di sessant’anni.
Se mai il romanzo verrà pubblicato qualcuno forse scorgerà, in filigrana, il legame tra quel che racconta e il periodo in cui è stato scritto. O forse non se ne accorgerà nessuno, forse solo io saprò quanto l’isolamento di un personaggio, e la paura di un altro, siano figli del nostro isolamento attuale, della nostra paura.
Ho sempre pensato che “Scrivo per me, non per essere letto” sia una colossale impostura, così come sono sempre stato scettico sul potere curativo della scrittura. Eppure.
Quindi, di nuovo, scrivo; sono anche tornato dentro a qualche chat, e poi vediamo che succede. A questo romanzo, alla letteratura di domani, e a tutti noi.
(7 aprile 2020)
*Che il romanzo sia stato poi finito, e adesso pubblicato, e che si intitoli proprio Consolazione, forse deriva da qui. Ma quando ho deciso di intitolarlo così non ricordavo questo testo, risputato fuori da una cartella del computer solo oggi, il 17 febbraio 2022.