Era ambientata in una vasta anticamera del paradiso piena di computer e con uno staff composto da individui che erano stati ragionieri, consulenti finanziari, esperti di Borsa e simili, sulla Terra.
Non si poteva entrare in paradiso se prima non si era subito un esame, mirante ad accertare in che misura uno aveva approfittato delle opportunità economiche che Dio, tramite i suoi angeli, gli aveva offerta.
Da mane a sera, in ogni scomparto del salone, si potevano udire quegli esperti ripetere, con aria annoiata, a chi aveva perduto un’occasione dietro l’altra: “Appunto,! Eri di nuovo addormentato al timone”. […]
Addormentato al timone è una novella alquanto sacrilega. Ne è protagonista l’anima di Albert Einstein. Questi è tanto poco interessato alle ricchezze che neppure sta bene a sentire quel che gli dice l’esaminatore. In realtà quest’ultimo gli sta dicendo che, a un certo punto, avrebbe potuto diventare miliardario, se solo avesse acceso una seconda ipoteca sulla sua casa, a Berna, nel Millenovecentocinque, e quindi investito il denaro in miniere di uranio prima di rivelare al mondo che E=mc2.
“E invece… lei dormiva di nuovo al timone” dice l’esaminatore.
“Sì” dice Einstein, educatamente. “Direi anzi che è tipico.”
“Vede dunque,” dice l’esaminatore, “che la vita è stata equa con lei e le ha offerto un buon numero di eccellenti occasioni, che lei poteva cogliere e sfruttare.”
“Sì, me ne rendo conto” di Einstein.
“Le dispiacerebbe dirlo a chiare lettere?”
“Dire cosa?” domanda Einstein.
“Che la vita con lei è stata equa.”
“La vita è stata equa” dice Einstein.
“Se non ne fosse proprio convinto,” dice l’esaminatore, “posso offrirle numerosi altri esempi. Eccone un altro, energia atomica a parte. Se lei avesse prelevato i suoi risparmi in banca, quand’era all’Università di Princeton, e li avesse investiti, a partire dal Millenovecentocinquanta, mettiamo, in azioni IBM, Polaroid e Xerox… sebbene le restassero allora solo cinque anni di vita…” L’esaminatore alza gli occhi al cielo, per invitare Einstein a mostrare che ha capito.
“Sarei diventato ricco?” dice Einstein.
“Agiato, diciamo” dice l’esaminatore, sussiegoso. “Ma, eccola là, di nuovo … ” E di nuovo solleva le sopracciglia.
“Addormentato al timone” dice Einstein, sperando di imbroccarla.
L’esaminatore si alza e gli porge la mano, che Einstein gli stringe senza entusiasmo. “Vede, dunque, professor Einstein, che non possiamo dar la colpa a Dio di tutto, non le pare?” E consegna a Einstein il lasciapassare per il paradiso. “Benvenuto a bordo” gli dice.
Così Einstein entra in paradiso, portando con sé il diletto violino. All’esame non pensa ormai più. Ne ha varcate tante, di frontiere, in vita sua. E sempre gli è toccato rispondere a domande insensate, fare vuote promesse, firmare inutili documenti.
Ma, una volta in paradiso, Einstein incontra un’infinità di anime sconvolte da quel che era saltato fuori durante l’esame. Due coniugi, che si eran suicidati dopo aver perso tutto in un allevamento di polli nel New Hampshire, avevano appreso di aver trascorso la vita sopra il maggior giacimento di nichel del mondo, senza saperlo.
Un ragazzo di Harlem, ucciso a quattordici anni in una rissa, aveva appreso di un anello di diamanti che era rimasto per settimane in fondo a un bacino di scarico davanti al quale lui passava ogni giorno. Due carati, senza magagne; non ne era mai stato denunciato il furto o lo smarrimento. Se lui l’avesse venduto anche a un decimo del suo valore, quattrocento dollari, e poi speculato alla borsa-merci, specialmente sul cacao in quel periodo – secondo l’esanimatore – avrebbe potuto trasferirsi con la madre e le sorelle da Harlem a Park Avenue, e frequentare buone scuole e poi iscriversi a Harvard.
Ecco Harvard, di nuovo.
Sono tutte storie americane, quelle che sente, poiché Einstein ha scelto di stabilirsi nella zona americana del paradiso. Comprensibilmente, ha qualche perplessità nei confronti degli europei, in quanto ebreo. Ma non solo gli americani venivano esaminati all’ingresso. Allo steso trattamento erano sottoposti pakistani e pigmei delle Filippine e persino i comunisti.
È in carattere con Einstein ch’egli si senta offeso dalla meccanicità del sistema, cui tutti quanti – secondo quegli esaminatori – dovrebbero mostrarsi tanto grati. Egli calcola che, se ogni persona sulla Terra sfruttasse pienamente ogni opportunità, divenendo milionaria e poi miliardaria e così via, la ricchezza cartacea del pianeta supererebbe il valore di tutti i minerali dell’universo nel giro di tre mesi. Eppoi, non resterebbe più nessuno da adibire ai lavori indispensabili.
Quindi manda un biglietto a Dio. In questa lettera si presume che il Padreterno sia all’oscuro delle sciocchezze di cui parlano i Suoi esaminatori. E si accusano questi ultimi, non Dio, di ingannare crudelmente i nuovi arrivati circa le opportunità da essi avute sulla Terra. Einstein cerca di indovinare i motivi per cui gli esaminatori si comportano così. Saranno mica dei sadici?
La novella finisce bruscamente. Einstein non arriva a vedere Dio. Questi però gli manda un arcangelo, arrabbiatissimo, il quale dice a Einstein che, se avesse seguitato a distruggere il rispetto dei trapassati nei confronti dell’esame d’ammissione, gli avrebbero tolto il violino per tutta l’eternità. Così, Einstein non parla più con nessuno degli esami. Il violino, per lui, è più importante di qualsiasi altra cosa.
Questa novella è certo uno schiaffo a Dio, in quanto suggerisce che Egli è capace di usare un meschino sotterfugio come quegli gli esami affinché non venga data a Lui la colpa per com’è dura la vita economica sulla Terra.

Una novella di Kilgore Trout citata in
Kurt Vonnegut, Un pezzo da galera
Traduzione di Pier Francesco Paolini
Feltrinelli, 2004