“le sorelle B-36”

“Sul pianeta matriarcale Bubu, nella nebulosa del Cancro, c’erano tre sorelle il cui cognome era B-36. Può essere solo una coincidenza il fatto che il loro cognome fosse anche quello di un velivolo terrestre progettato per sganciare bombe sui civili di nazioni rette da governanti corrotti. La Terra e Bubu erano troppo distanti tra loro per poter comunicare.”
Un’altra coincidenza. La lingua scritta di Bubu era come l’inglese della Terra, nel senso che consisteva di bizzarre combinazioni su righe orizzontali di ventisei simboli fonetici, dieci numeri e circa nove segni di interpunzione.
Tutte e tre le sorelle erano belle, proseguiva il racconto di Trout, ma solo due erano simpatiche: una faceva la pittrice e l’altra scriveva racconti. Nessuno poteva sopportare la terza, una scienziata. Era talmente noiosa! Non sapeva parlare d’altro che di termodinamica. Era invidiosa. La sua ambizione segreta era di far sentire le sue sorelle, per usare un’espressione amata da Trout, “come qualcosa tirato dentro dal gatto”.
Trout diceva che i bubuestri erano tra le creature più adattabili nella locale famiglia di galassie, e questo grazie ai loro grossi cervelli, che potevano venir programmati per fare o non fare, sentire o non sentire, quasi qualsiasi cosa. Qualsiasi!
La programmazione non veniva effettuata tramite interventi chirurgici né tramite stimolazioni elettriche né tramite qualsiasi altra sorta di intrusione neurologica. Veniva fatta socialmente, con il solo uso di parole, parole, parole. Gli adulti si rivolgevano ai piccoli bubuestri parlando positivamente di sentimenti e necessità presumibilmente appropriati e gradevoli. I cervelli dei giovani rispondevano con lo sviluppo di circuiti che rendevano automatico il comportamento civile.
Per i bubuestri sembrava una buona idea, per esempio, quando non fosse in corso niente di particolare, venire eccitati beneficamente tramite stimoli minimi, tipo bizzarre combinazioni su righe orizzontali di ventisei simboli fonetici, dieci numeri e circa otto segni di interpunzione, o tocchi di pigmento su superfici piatte incorniciate.
Quando un piccolo bubuestre stava leggendo un libro, un adulto poteva interromperlo dicendo, a seconda di cosa stesse succedendo nel libro: “Triste, vero? Il tenero cagnolino della bambina è stato travolto dal camion della spazzatura. Non ti fa venir voglia di piangere?”
Oppure l’adulto poteva dire, a proposito di una storia di tutt’altro genere: “Spassoso, vero? Quando quel tronfio riccastro è scivolato su una buccia di nim-nim ed è finito in un tombino, non ti sei sentito soffocare dalle risate?”
Su Bubu il nim-nim era un frutto simile alla banana.
Un piccolo bubuestre portato in una galleria d’arte poteva sentirsi domandare se davvero la donna che vedeva ritratta in un determinato dipinto stesse ridendo. Non poteva magari esser triste per qualche ragione e nondimeno sembrare allegra? Secondo te, è sposata? Ha un figlio? Lo tratta bene? Dove credi che stia andando? Vuole andarci?
Se nel dipinto c’era una ciotola colma di frutta, l’adulto poteva chiedere: “Non sembrano fatti apposta per essere mangiati, quei nim-nim lì? Eh? Buoooni!”
I suddetti esempi di pedagogia bubuestre non sono miei.
Sono di Kilgore Trout.
E così le menti della maggior parte dei bubuestri, ma non proprio di tutti, si predisponevano allo sviluppo di una serie di circuiti – o, se più vi piace, di microchip – che sulla Terra si sarebbero chiamati “fantasia”. Proprio così, ed era proprio perché un’ampia maggioranza di bubuestri nutriva fantasie, che due delle sorelle B-36 , la scrittrice di racconti e la pittrice, erano così benvolute.
Anche la sorella cattiva aveva fantasia, certo, ma non nel campo dell’apprezzamento artistico. Non leggeva libri e non andava nelle gallerie d’arte. Da piccola aveva trascorso ogni momento libero delle sue giornate nel giardino di un manicomio nei pressi di casa. I matti che gironzolavano lì erano ritenuti innocui, sicché il suo fargli compagnia passava per lodevole attività altruistica. Ma i matti le avevano insegnato la termodinamica e il calcolo e via di seguito.
Quando la sorella cattiva divenne ragazza, lei e i matti si misero a progettare telecamere e trasmettitori e ricevitori. Poi ereditò dalla ricca madre i soldi per produrre e distribuire quei satanici arnesi che rendevano ridondante la fantasia. Divennero popolari in brevissimo tempo, poiché gli spettacoli erano molto attraenti. e non era implicato alcuno sforzo mentale.
La sorella cattiva fece un sacco di quattrini, ma ciò che veramente la rendeva felice era il fatto che le sorelle cominciavano a sentirsi come “qualcosa tirato dentro dal gatto”. I giovani bubuestri non vedevano più motivo per sviluppare la fantasia, giacché al semplice tocco di un pulsante potevano godersi un sacco di merda patinata. Quando posavano lo sguardo su una pagina o su un dipinto si domandavano come potesse essere esistito qualcuno che sballava davanti a cose così semplici e così morte.
Il nome della sorella cattiva era Nim-nim. Quando i genitori l’avevano chiamata così non immaginavano lontanamente ciò che sarebbe diventata. E la TV non era che una piccola parte! Continuava a essere antipatica e noiosa, e nessuno voleva frequentarla, così inventò le automobili e i computer e il filo spinato e i lanciafiamme e le mine e le mitragliatrici e via di seguito. Giusto per chiarire quanto fosse incazzata.
Nuove generazioni di bubuestri crebbero senza fantasia. La loro brama di evasione era pienamente appagata dalla merda che Nim-nim andava vendendogli. Perché avrebbero dovuto preoccuparsi, che diamine!
Senza immaginazione gli era impossibile dedicarsi a una pratica in uso presso i loro avi: leggersi l’un l’altro racconti interessanti e commoventi. Sicché, stando a Kilgore Trout, “i bubuestri divennero creature tra le più spietate nella locale famiglia di galassie”.

cronosisma

Un racconto di Kilgore Trout citato in

Kurt Vonnegut, Cronosisma (1997)

Traduzione di S.C. Perroni

Bompiani, 1998

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