(intervento letto durante la Wallace Experience al Circolo dei Lettori di Torino, 12/09/2018)
Buonasera a tutti.
Il motivo per cui sono qui è per provare a dire qualcosa su uno dei miei racconti preferiti.
Lo ha scritto, indovinate un po’?, David Foster Wallace, si intitola Per sempre lassù ed è contenuto in Brevi interviste con uomini schifosi (tradotto da Ottavio Fatica e Giovanna Granato).
Ora, se siete qui, è abbastanza probabile che lo conosciate già; per chi non l’avesse ancora letto ecco la trama, ridotta all’osso: Un ragazzino, nel giorno del suo tredicesimo compleanno, va in piscina con la sua famiglia, sale sul trampolino, e lì si blocca.
O, per lo meno, questo è quello che vedrebbe un ipotetico osservatore seduto a bordo piscina. Quello che però succede davvero nel racconto, il nostro osservatore a bordo piscina non lo potrebbe vedere, perché succede o è successo dentro al ragazzino, o comunque sul confine tra dentro e fuori, cioè sulla sua pelle.
Zadie Smith ha scritto che questo racconto sembra contenere tutti gli elementi della sua infanzia, e forse di quella di tutti. Credo sia dato anche dal fatto che il racconto è in seconda persona, e quindi parla di quel che è successo dentro di te, e sulla tua pelle.
Riguardo al dentro, al ragazzino sono già successe un bel po’ di cose, più o meno di recente, e molte di queste – vista l’età non è una grossa sorpresa – hanno a che fare con gli ormoni. I testicoli che scendono, certi sogni piuttosto piacevoli e le loro conseguenze, insomma tutto quello che ci aspettiamo da un tredicenne. Sono tutte cose che lo lasciano un po’ frastornato, esattamente come le ragazze in bikini che vede a bordo piscina. Sono cose che non riesce ad afferrare del tutto. Non ancora. In quel quasi è un universo.
Fuori dal ragazzino ci sono: una piscina con un suo odore che Wallace definisce limpido e azzurro, il cielo sterminato sopra Tucson, Arizona, uno snack bar, la sua famiglia: i genitori e una sorellina.
E va tutto bene, va tutto liscio. Poi, poi però ci si mette il trampolino.
Questa è una frase che il ragazzino dice a se stesso, ma potrebbe anche essere una frase che viene mormorata dal trampolino stesso per convincere il ragazzino, per sedurlo. È un gioco di prestigio della seconda persona, in un certo senso. Il punto è che il trampolino vince, come succede quasi sempre. Il ragazzino si decide, e con la fila che si ingrossa alle spalle e si accorcia davanti, gli sembra che sia ormai troppo tardi per tornare indietro, per rinunciare.
Prima di salire sul trampolino, il tuffo sembrava una cosa da fare d’istinto, senza pensarci su, ma adesso non pensarci sembra impossibile, anche per colpa del bombardamento sensoriale: i pioli sotto i piedi, il vento, le orme sul trampolino di chi si è buttato prima, sembra tutta una congiura per impedire di non pensarci.
La gente laggiù sembra minuscola, e la fine del trampolino vicinissima.
Non credo di essere particolarmente originale se dico che il racconto parla della crescita, del momento in cui le scelte non sono più dettate dall’incoscienza della fanciullezza ma dalla consapevolezza. E di come questa sia accompagnata da paure che rischiano di immobilizzarci.
Il motivo per cui amo questo racconto però ha a che fare con il contrasto tra la voglia di fare qualcosa e il timore di non farcela.
È una sensazione mista di attrazione e paura che non riguarda solo la pubertà, che non riguarda solo il nostro ragazzino – su cui non dirò altro, e se qualcuno non avesse letto il racconto spero si precipiti a farlo per sapere come finisce –, una sensazione che conosco da molto, molto vicino.
Da bambino la provavo per i film horror, quando in un momento di disattenzione dei miei genitori ne intercettavo uno in tv. Volevo guardarlo, ma contemporaneamente volevo scappare in un’altra stanza.
Crescendo l’ho provata di continuo, e per un’infinità di cose.
Ad esempio, quando viene pubblicato qualcosa che ho scritto, una parte di me vuole che venga letta, e un’altra è terrorizzata che questo avvenga.
Qualcosa del genere mi è successa anche quando mi hanno proposto di essere presente stasera, di venire quaggiù, a parlare per qualche minuto di Per sempre lassù.
Se sono qui è perché alla fine, anche in questo caso, ha vinto il trampolino. E questo è stato il mio tuffo. Quando sei in volo i minuti durano più di quel che uno si immagina, ma adesso il tuffo è finito, quindi forse mi posso rilassare un po’, e da sotto stare a guardare chi si tufferà dopo di me.
Grazie dell’invito, è stato un onore essere qui.

Scrivi più spesso! È una gioia rinnovata ogni volta.
Intanto grazie
Grazie, troppo buona 🙏