autobiografia di cose trascurabili

Provo tanta, tanta ammirazione per quelli che hanno una vita avventurosa e piena di eventi notevoli, quelli che mentre le cose gli capitano le osservano con attenzione, se ne fanno una bella mappa mentale, precisissima, con tutti i particolari al posto giusto. E poi, quando le avventure sono finite – o meglio ancora, tra un’avventura e l’altra – si siedono a un tavolo, le scrivono, descrivono, decorano, ed è fatta.
Però, il dubbio viene: e se a raccontare una vita così fossero buoni tutti? Allora mi verrebbe voglia di prenderne uno, di quelli lì che vivono senza freni e poi scrivono senza sbavature, e dirgli Prova un po’ a raccontare la vita mia, e vediamo come te la cavi.
Come me la rendi eccitante, come me la rendi unica.
Ti sfido.

Per esempio, gli direi, come racconteresti di quella volta, avrò avuto sei o sette anni, che al mare ho conosciuto Bud Spencer? Mi raccomando, gli direi, rendi bene la mia ammirazione sconfinata per quel gigante che mi teneva compagnia il sabato sera, l’unica in cui mi era permesso di stare alzato di sera fino alla fine del film. Descrivi gli occhiali da sole di Bud, i capelli un po’ più lunghi e la voce un po’ più bassa che in tv, insomma tutti i motivi per cui non l’ho riconosciuto subito, e poi descrivi il coraggio che ci è mi ci voluto per chiedergli un autografo – autografo che ho poi perso, chissà dov’è finito. E non dimenticarti la mano enorme con cui Bud mi ha indicato lo scafo malmesso di una barca appoggiata in un angolo, piena di graffi e scritte e schegge.
Chi l’ha ridotta così? ha chiesto Bud.
Degli altri bambini, ho risposto io.
E allora, quando li vedi, digli che quella è la barca di Bud Spencer e non la devono toccare.
Solo che poi – a questa parte ci tengo quindi lavoraci su, gli direi – solo che poi ogni volta che vedevo qualcuno che giocava attorno alla barca e andavo a recapitare il messaggio, mi prendevo risposte come Seeee, e a me Terence Hill mi ha detto che ci posso fare quel che voglio, con ‘sta barca. Insomma, a quanto pare le parole di Bud Spencer non erano sufficienti, ed ecco forse spiegato il motivo per cui nei film preferiva esprimersi con quelle terrificanti ceffe a mano aperta, scroscianti come grossi applausi.
Ce la fai, gli direi, a rendere interessante una storia così?

E considera che almeno fin qui c’era il corpaccione di Bud a prendersi la scena, gli direi, ma nei casi in cui non ci sono VIP di mezzo, sei sicuro di farcela?
Sei in grado, gli direi per esempio, di fare un giro sull’ottovolante dell’umore di un bambino? Perché in questo caso potresti raccontare quanto il passaggio dalla cresta della gioia allo strapiombo della delusione possa strizzare lo stomaco, usando come esempio quei pasti all’asilo in cui arrivava in tavola un bel pentolone di purè di patate, io ne chiedevo una doppia razione (Sicuro che lo mangi tutto?, chiedevano. Eccerto, rispondevo) per poi scoprire con raccapriccio, appena messa in bocca la prima cucchiaiata, che non era purè, ma pearà.
Cambiano solo le vocali, ma in realtà cambia tutto.
E insomma, gli direi, ce la fai a dipingere con le parole il disgusto sulla mia faccia di bambino con davanti due razioni di quella poltiglia di pane raffermo, midollo e brodo?
Te l’avevo detto io, mica è così semplice essere brillanti se non ci sono di mezzo i viaggi, i tradimenti, i servizi segreti, i doppi giochi, i diamanti, le fughe, le fighe, e così via.

Per darti una mano, gli direi, per provare a rendere anche un’autobiografia di cose trascurabili come questa un pochino più eccitante, potremmo inserire dei personaggi negativi.
Voglio dire, che storia è se non c’è almeno un antagonista?
Allora, suggerirei, per il ruolo di antagonista abbiamo due candidati, ma per arrivare a loro tocca partire da quella volta che sono andato in tv.
Non so bene da dove sia uscita l’idea, fatto sta che un giorno mi sono ritrovato nello studio di una tv locale, per uno dei quei programmi scemi per bambini. Ogni bambino aveva un numero  –  il mio era il 13, e io ci sono nato il 13, quindi quando ho visto che mi davano quello ho pensato Guarda te, la coincidenza  –  e a un certo punto il presentatore ha sorteggiato tre numeri per fare un giochino, e uno dei tre era proprio il 13.
Ci hanno messo, a me e alle altre due bambine sorteggiate, di fronte a una telecamera, ci han dato un pandorino – non Paluani, fortunatamente, ma questa è un’altra storia – e han detto Chi lo mangia per primo vince, pronti, via.
Ho vinto facile, forse perché le bambine non avevano voglia di umiliarsi così davanti a una telecamera, con le guance gonfie e le briciole sparpagliate in faccia, e io invece, preso dalla foga, all’umiliazione non ci avevo pensato.
Quando mi è riuscito di buttar giù il bolo di pandorino che avevo a metà tra la gola e l’esofago, il presentatore mi ha sorriso e Complimenti, ha detto, hai vinto un mese di lezioni di karate gratis, sei contento?
Sì, ho detto io, anche se avevo dei dubbi.
E infatti già dalla prima lezione ho capito che il karatè, a me, faceva cacare. Anche per colpa del maestro, che continuava a buttarmi per terra spazzandomi le gambe da dietro per dimostrare che non stavo lavorando bene sull’equilibrio. E ogni volta, con quel tatami fetido a una spanna da naso, fantasticavo di farmi piacere sul serio il karate solo per arrivare a una cintura più alta della sua, e tornare dopo qualche anno dal maestro e buttare per terra lui.

Come vedi, direi al mio sfidante biografo, il maestro di karate ha la statura per diventare un’ottima nemesi. Se la gioca con un altro maestro, quello di nuoto.
Sì perché una volta abbandonato il karate, con uno certo dispiacere perché comunque Karate Kid su di me aveva a quei tempi un certo ascendente, mi hanno iscritto a un corso di nuoto.
Il maestro di nuoto era un biondino che urlava come se davvero gli importasse che imparassimo a nuotare in maniera tecnicamente impeccabile. A complicare le cose, il maestro somigliava tremendamente al biondino malvagio di Karate Kid, innescando uno strano cortocircuito nella mia testa di bambino. Smettere col karate e andare a nuoto solo per imbattersi nel sosia di uno che potevi sconfiggere solo col karate, che razza di beffa era quella?
Qui, gli direi, forse potresti desumere un qualche insegnamento su quanto il destino sia beffardo, ma non vorrei darti troppe idee, se no va a finire che la storia me la racconto da me, e la sfida va a farsi benedire.

Comunque, gli direi, anche grazie ai miei suggerimenti la storia inizia a prendere un andamento se non proprio coinvolgente quantomeno accettabile, che te ne pare?
Abbiamo un modello positivo (l’enorme Bud), abbiamo almeno un paio di antagonisti, ci manca una donna. E per la donna potremmo scavare un po’ nel passato, andare alle origini della mia vita sentimentale, a una bambina che mi piaceva in prima elementare o giù di lì.
Per arrivare alla bambina toccherà però dire due parole anche su Andrea – uno che pensandoci bene andrà messo anche lui nella galleria dei possibili antagonisti.
Dunque, Andrea: un bambino che io ricordo brutto in maniera eccezionale, e antipatico altrettanto. Che poi non sono neppure sicuro lo fosse davvero, può anche essere che i nostri dissapori me lo facessero apparire peggio di com’era. Già, perché io e Andrea si aveva una cosa in comune, che però non ci avvicinava e anzi ci rendeva ostili: per l’appunto, l’amore per la bambina di cui si parlava prima.
Passavamo l’intervallo attorno alle altalene e allo scivolo e alla vasca con la sabbia, passavamo l’intervallo chiedendole a turno: Ma ti piaccio più io o più lui?
E lei, sia che a chiederlo fossi io sia che fosse Andrea, rispondeva invariabilmente: tu.
Carina la bambina; ma un po’ stronza, anche, a ben vedere. E anche questa è una cosa che ci può tornare utile, abbiamo una femme fatale in erba, non trovi che ci stia bene? Ci sta bene, ci sta bene.

Il puzzle prende forma, cosa aggiungeresti?, gli chiederei.
Un po’ di collaborazione, santiddio, almeno partecipa, gli direi.
Io credo che a questo punto una delle cose da aggiungere sarebbe una spalla.
Un amico, sì, un amico.
A questo proposito, mi viene in mente di quando con un mio amico, che non nomino per non coinvolgerlo in questa risacca di idiozia adolescenziale, ci si fermava sul marciapiede guardando in su, e Guarda là, si diceva, Pazzesco, si diceva, si indicava per aria e Mai visto niente di simile, si diceva, finché dopo un po’ c’era un capannello di persone che si fermava di fianco a noi e guardava su, tutti zitti, nessuno che chiedeva niente, e dopo un po’ Ah no, si diceva noi, non è niente, e si andava via lasciando lì il capannello a stabilire che sì, eravamo due coglioni. Ma contenti.

Questa storia, a forza di aggiungere e aggiungere elementi, sta prendendo una piega un po’ strana.
Nel tentativo di renderla interessante la stiamo plasmando sulla base di storie già sentite, seguendo uno schema mica troppo originale: i nemici, gli amici, la donna; abbiamo letto troppi fumetti mi sa.
E nei fumetti il protagonista ha quasi sempre un punto debole, quindi ecco qua: il mio punto debole sono sempre state le montagne russe.
Del resto, ognuno ha le sue; c’è gente che non riesce a tener gli occhi aperti davanti a un film truculento o spaventevole, a me potete far vedere quasi qualsiasi cosa, ma salire sulle montagne russe, potendo, eviterei. E infatti ho evitato per circa ventitré anni della mia vita, poi per le circonvoluzioni del destino ci son salito, un paio di volte. Male, male, malissimo. Quando son sceso, la prima volta, mi hanno anche dato una foto scattata di straforo durante la corsa. In quella foto artigliavo la sbarra di sicurezza con tale disperato accanimento che nelle mani non circolava più il sangue. Mani di morto, che era circa come mi sentivo mentre sfrecciavo nel vuoto.
La seconda volta è andata un pochino meglio. Solo un pochino.
Che poi, c’è una cosa che mi pare sospetta, nelle montagne russe. Dice wikipedia che in Russia le chiamano американские горки, che vuol dire montagne americane. Insomma, tutti quegli anni a far la corsa allo spazio, e poi quando è ora di attribuirsi la paternità della giostra più famosa del mondo i russi e gli americani se la rimpallano così?
Non un bel segno, via.

Fino ad ora, direi al mio sfidante biografo, se ci fai caso ci siamo concentrati sul passato, siamo partiti da lontano, solo che per farlo serve una buona memoria, e la mia invece è inaffidabile, troppo, troppo inaffidabile.
E non solo la mia, mi sa.
Abbiamo tutti la strana abitudine di cancellare quasi completamente momenti importanti della nostra vita e di conservarne altri tutto sommato banali.
Ricordare solo vagamente la propria laurea ma saper ricostruire di che gusto era quel ghiacciolo, anni e anni fa. E poi riscrivere qualcosa, convincendoci di non averlo fatto.
Per esempio, vuoi citare una celeberrima scena di Alien che hai visto manciate di volte, poi vai a controllare e scopri che in quella scena là non si dice affatto “Escono dalle fottute pareti”, bensì “Vengono fuori dalle fottute pareti”, che è circa la stessa cosa, ma insomma, parafrasata. E sembra che non sia solo la tua memoria che ha questo vizio di parafrasare, perché “Escono dalle fottute pareti” su Google dà più di centomila risultati, e “Vengono fuori dalle fottute pareti” meno di trentamila. Pensa un po’ te, quanto ce la raccontiamo sbagliata, gli direi.
E se non siamo affidabili sulla frase di un film, pensa un po’ a quanto mentiamo parlando di noi.
Ci vorrebbe invece una sincerità sfacciata, come quella della bambina che ho incontrato una mattina in metropolitana. Se ne stava accucciata tra i due genitori, che la proteggevano dalla calca, e aveva un musetto vispo, così vispo che me la sono subito immaginata a dire cose scomode, ma sincere. E difatti ha annusato il vicino e Che schifo, ha detto, c’è puzza di cane.
Quello ci vorrebbe, gli direi, e non pensare che valga solo per me, che anche tutti i viaggi, i tradimenti, i servizi segreti, i doppi giochi, i diamanti, le fughe, le fighe, siamo sicuri sia successo tutto davvero così come lo descrivi?.

Un’altra cosa che forse servirebbe, per lasciare che la storia scivoli via senza intoppi, per fare in modo che chi la legge se la beva senza che gli vada di traverso, sarebbe prenderla come viene, ovvero non troppo sul serio.
Fare come quello che ho incontrato sulla metropolitana una volta, e mi ha chiesto È quella per Cadorna?
No, ho risposto io, questo va nella direzione opposta.
Oh, be’, fa lo stesso, ha detto lui.
Fa lo stesso, capisci?, direi al mio sfidante biografo. Fa lo stesso.
Il bello del fa lo stesso è che ti libera da un sacco di paure, e io invece in mezzo alle paure ci vivo di continuo.
Mi metti in un posto, e io lo scompongo e rimonto in modo da farlo diventare fonte di eventi spiacevoli e collocabili su una scala ideale che va dall’imbarazzo alla tragedia.
Per esempio, mi spaventano molto i musei di arte contemporanea, perché quando ci vado ho paura a far tutto, anche cose banali come chiamare l’ascensore, buttare una carta nel cestino e andare in bagno, perché mi viene sempre il dubbio che l’ascensore e il cestino e il bagno non siano in realtà un ascensore e un cestino e un bagno, ma opere d’arte contemporanea famosissime, e quindi ho il terrore di far la figura di quello che non ci capisce niente  – come in effetti è.
Un altro posto dove vengo sempre preso da una certa inquietudine è il supermercato. C’è troppa roba, troppi colori, troppa scelta, troppa gente, e c’è quel problema con i preservativi, perché d’accordo che siamo tutti adulti ed emancipati e mica c’è da vergognarsi, però io mica me lo spiego perché nei supermercati li mettono sempre vicini alla cassa, così ti tocca pescarli dall’espositore con quello dietro di te in coda che ti guarda, e insomma può essere imbarazzante (e sorvoliamo su quello che la confezione  –  ritardanti, senza lattice, extra large, extra small  –  dice di te e della tua vita privata).
Siamo ossessionati dalla privacy, ma riguardo ai preservativi, niente.

Insomma, gli direi, io di spunti te ne ho dati parecchi; c’è solo un’ultima cosa, magari ti potrebbe servire, perché credo che nascosto in questo episodio ci sia una specie di significato recondito o qualcosa di simile.
Torniamo un po’ indietro, torniamo all’inizio, ai tempi di Bud Spencer.
Durante quelle vacanze al mare, con i miei genitori certe sere si usciva a cena e tornando verso casa, lungo stradine buie e poco frequentate, mentre io dormivo sul sedile posteriore capitava di imbattersi in una volpe. Eccola, eccola!, gridavano i miei genitori, ma quando aprivo gli occhi quella era già scomparsa.
Un’estate rimasi sveglio ogni sera, pizzicandomi le cosce a ogni tornante per non cadere addormentato. Della volpe, nessuna traccia. L’ultima sera il sonno ebbe la meglio, ed eccola lì, puntuale, zompettare nella luce gialla dei fari mentre la mia testa ciondolava nel buio dell’abitacolo. Poi si cambiò destinazione per le vacanze, e quindi addio stradine buie e poco frequentate, addio volpe, per me ormai una creatura quasi mitologica capace di materializzarsi solo quando dormivo.
Passano una ventina d’anni, sono seduto fuori da un pub a Londra, a tutto penso tranne che alla volpe; e, invece, in mezzo alla strada, sì: una volpe.
Musetto a punta, coda cotonata, pelo fulvo; bellina, non lo nego, ma insomma: dopo tutta quella attesa, la volpe non era poi sto granché.
Con questo abbiamo finito, gli direi.
Tu mettiti al lavoro, taglia cuci fai quel che vuoi, e vediamo cosa ne viene fuori.
Nel frattempo, gli direi, io mi dedico ad attività più prosaiche e noiose, per esempio adesso sto lavando i piatti, e a forza di strofinare mi è venuto da pensare che la vita – banale come la mia o avventurosa come la tua, non cambia molto – la vita è quella cosa complicatissima che usi la bistecchiera e resta tutta annerita, allora la pulisci con lo scovolino e quello resta tutto annerito, allora lo pulisci con la spugnetta e quella resta tutta annerita.
E così via.

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