Non sarei partita. Avrei avuto cura di lei. Sarebbe guarita. Mi venne anche fatto di pensare che era una promessa che non potevo mantenere. Non potevo aver sempre cura di lei. Non potevo non lasciarla mai. Non era più una bambina. Era un’adulta. Nella vita accadevano delle cose che le madri non potevano né impedire né aggiustare. A meno che una di quelle cose non l’avesse uccisa prematuramente, come una volta era quasi successo al Beth Israel e un’altra volta poteva ancora succedere all’UCLA, io sarei morta prima di lei. Ricordavo discussioni in studi di avvocati durante le quali mi aveva costernato la parola «premorienza». Non era possibile usare quella parola. Dopo ognuna di queste discussioni vedevo le parole «comune disastro» in una luce nuova e favorevole. Eppure un giorno durante un volo tempestoso tra Honolulu e Los Angeles avevo immaginato un disastro del genere e lo avevo respinto. L’aereo sarebbe precipitato. Miracolosamente, lei e io saremmo scampate all’incidente e saremmo andate alla deriva nel Pacifico, aggrappate a qualche rottame. Il dilemma era questo: poiché avevo le mestruazioni e il sangue avrebbe attirato i pescicani, avrei dovuto abbandonarla, allontanarmi a nuoto, lasciarla sola.
Potevo farlo?
Tutti i genitori si sentivano così?

Joan Didion
L’anno del pensiero magico (2005)
Traduzione di Vincenzo Mantovani
il Saggiatore, 2006