Ci sarà pure un motivo, se alcune delle più brillanti storielle hanno per tema la morte; comunque, possiamo dedurne che vi è un punto di vista, secondo il quale la morte è una cosa ridicola. Fa ridere. Un dottore percorre pensoso i viali di un cimitero; da sotto una lapide ode uscire una voce invocante: «Dottore! Dottore!». Sconvolto, il dottore si accosta alla lapide. La voce sotterranea grida: «Dottore, mi aiuti!». Il dottore balbetta, all’incirca: «Che cosa posso fare per lei?», e la voce risponde: «Ho bisogno di lei, dottore; ho i vermi». La trovo una decorosa storia, anche se un po’ aspretta; mentre l’agonizzante del Belli che dice al prete: «Ogne, ogne e non rompe li cojoni» è rude, fiera del sarcasmo non più punibile del morituro.
Una nota vignetta sul Terrore mostra una serie di signori che salgono sulla scala che li deve condurre alla ghigliottina; salgono disordinatamente, e quello che sta in cima, il primo decapitando, si volta seccato e strilla: «E non cominciamo a spingere, eh!». Ci sono ottime storielle sulla forca, sulle epidemie – dopo tutto il Decameron nasce da una pestilenza –, sui fantasmi, sui cimiteri. Ma insomma, perché la morte fa ridere? È proprio divertente? In talune circostanze, lo è. Le storielle vengono sempre raccontate da chi morto non è. È un po’ come vedere qualcuno che dà una gran sederata; la sederata definitiva. Il morto non appartiene al nostro mondo, e dunque lo si può trattare con una certa confidenza; dopo tutto, non è mica un potente dell’aldilà, è un mortaccolo, non può mica vendicarsi. Morire è un po’ stupido, ma come è un po’ stupido sposarsi, e lo fanno, lo fate, quasi tutti. L’idea è questa: voi morite, eh? Secondo me, non è una cosa furba, ma affari vostri. Non ci sono storielle sulla nascita, ma ci sono storielle sul matrimonio; anche sul giorno delle nozze.
L’impressione è che la morte è una cosa «che fanno tutti», e dunque non è una cosa seria. E tuttavia è una faccenda che molesta, un pensiero seccante. Come vivere dentro una clessidra; quando passa l’ultimo granello di sabbia, tac, si casca, dove? Chissà se i morti si raccontano storielle sulla vita. Si ha l’impressione che i morti siano tutti un po’ mescolati, una gran folla di tutti i paesi. Se uno cominciasse una storiella: «Un giorno uno scozzese…», certo qualcuno lo interromperebbe: «Che cos’è uno scozzese?».
La morte non è solo divertente; fa anche gola. Basti vedere come si leggono le notizie ferali sui quotidiani; esistevano, forse esistono, giornali, rotocalchi, che si occupavano esclusivamente di morti ammazzati. Un atlante medico, tutto fotografie di gente impiccata e fatta a pezzi, qualche anno fa andò a ruba, e ci scrissero saggi e divagazioni scrittori di vaglia. Certo, l’assassinio è una specialità particolare del decesso, ed è anche più divertente. La morte violenta è una chicca; da anni escono migliaia di volumi dedicati solo alle morti per omicidio; ora il cinema ha scoperto che adoperando i morti dal vivo si possono ottenere risultati economicamente confortanti. Dickens amava le morti, specie se di bambini, o orrorose e violentissime. Una volta andò a visitare la Morgue di Parigi, e andò assolutamente in estasi davanti alla salma di un annegato. Scrisse uno dei suoi pezzi più esilaranti. Dickens morì recitando sulla scena l’orribile fine di non so quale omicida, pagina memorabile di un suo romanzo; fu assassinato dalla propria prosa delittuosa, e se questa non è una finezza, non so proprio che cosa sia.

Giorgio Manganelli
Improvvisi per macchina da scrivere
Adelphi, 2003